Mi chiamo Hayman. Vengo dal sud dell’Egitto, da una città non grandissima, molto più piccola de Il Cairo, che è enorme. Sono arrivato in Italia da più di 10 anni con un visto temporaneo, e quando è scaduto ci sono rimasto come “clandestino”.
All’inizio ho fatto vari lavori, per lo più saltuari perché non avevo il permesso di soggiorno né conoscevo la lingua italiana, finché nel 2011 sono riuscito ad ottenere il permesso. Da allora faccio l’educatore nei centri di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati. Ho scelto di lavorare come educatore già in Egitto. Ma nel mio paese non lavoravo con i richiedenti asilo perché non ci sono, o magari ci sono, però il sistema è diverso. Lavoravo con i minori non accompagnati.
Ho sempre vissuto a Milano, inizialmente in un appartamento in condivisione; poi mi sono trasferito in un appartamento da solo.
È difficile parlare del periodo dell’emergenza COVID, difficile decidere da dove iniziare il racconto.
Il mio tipo di lavoro è particolare: i centri di accoglienza non si possono chiudere. Quindi per noi, educatori, lo smart working non è previsto, perché il nostro lavoro è un lavoro di relazioni con gli ospiti. Quando è cominciata questa emergenza è cambiata la modalità di lavoro: è stato sospeso il nostro lavoro specifico, e per due mesi siamo diventati delle specie di “guardie”. Si andava al Centro a controllare che andasse tutto bene. Per le disposizioni COVID, ci è stato chiesto di mantenere la distanza tra noi colleghi e gli ospiti. Sono state sospese le attività ed i colloqui. Questo perché anche la Questura ed il Comune di Milano hanno chiuso. I centri di inserimento lavorativo hanno sospeso i colloqui e quindi tutto era bloccato, e di conseguenza anche noi. Ma siamo stati sempre presenti fisicamente al Centro. Il mio posto di lavoro è sempre stato garantito grazie al tipo di contratto che ho. L’unica cosa che è cambiata è che ci hanno ridotto le ore e ci hanno chiesto di consumare le ferie. Da aprile siamo rientrati a tempo pieno.
Nel Centro sono state adottate le comuni misure di protezione: mantenere le distanze ed indossare le mascherine. Ma nel primo mese non sono stati forniti i presidi adeguati: per un mese quasi non ci hanno dato nemmeno le mascherine, e ciò mi ha procurato molta rabbia.
Gli ospiti si sono adeguati alle indicazioni date, ma all’inizio c’era un po’ di resistenza, anche perché sembravano non capire bene cosa stesse succedendo, anche se noi avevamo spiegato in varie lingue la situazione. Nelle settimane successive hanno maturato tuttavia maggiore consapevolezza, e sono stati molto “sul pezzo”. Anche loro sono stati sempre chiusi nel Centro, senza uscire, eccetto per cose urgenti. E si sono comportati bene, sono stati bravi. Per fortuna da noi nessuno si è ammalato. In altri Centri invece ci sono stati casi di Covid-19 e gli operatori purtroppo non sono stati monitorati, né con i tamponi né con i test sierologici.
A casa, nel condominio in cui vivo, non ho assistito a comportamenti irresponsabili. Quindi non c’è stato nessun problema da questo punto di vista. L’unico comportamento “non a norma”, se così si può chiamare, è stato quello di alcuni ragazzi, che scendevano nel cortile per stare insieme e parlare, e prendere un po’ di sole… Comunque il lockdown ha trasformato in modo importante il quartiere in cui abito. La strada sulla quale si affaccia il mio balcone è per me una strada di riferimento, da lì provengono sempre rumori, che in passato mi infastidivano. Non sentirli più in questi tre mesi di costrizione è stato impressionante. A volte mi chiedevo: è finito il mondo? Per me la misura della realtà è la strada dove abito. Se la via è incasinata vuol dire che siamo tornati alla vita normale; se è silenziosa, così come è stata in questi due mesi e mezzo, senti che c‘è qualcosa che non va.
Nei mesi scorsi mi sono mosso da casa solo per andare a lavorare e fare la spesa. Mi sono sempre spostato senza grosse difficoltà, e non sono mai stato bloccato dalla polizia.
Sono sempre andato al lavoro in metropolitana. Anche se funzionava con orario ridotto c’erano un sacco di persone, a volte ero un po’ preoccupato, ma non ho mai avuto grossi problemi.
All’inizio, quando è iniziata l’emergenza, mi arrabbiavo, perché continuavo a vedere la metropolitana affollata, e mi chiedevo: “ma dove cacchio state andando?!” Mi sembrava impossibile che stessero andando tutti al lavoro, anche perché io, facendo i turni, spesso prendo la metropolitana in orari non tipicamente di punta, per esempio alle 10,30 del mattino o all’una, due del pomeriggio. Per me non era credibile vedere tutta questa gente. E mi dicevo: “Ragazzi: non avete capito che cosa sta succedendo!! Così non andremo da nessuna parte!”.
Poi un po’ la rabbia si è ridotta, e forse i comportamenti sono anche cambiati.
All’inizio ho pensato per un attimo di usare la bici, ma poi, un po’ per pigrizia un po’ perché la sede del lavoro è troppo distante ho rinunciato ad usarla.
In questo periodo non ho potuto ritirare il duplicato della carta di soggiorno, che avevo perso, perché la questura di Milano era chiusa. Ed è praticamente da febbraio che aspetto il messaggio per il ritiro, ma non sono preoccupato, perché è una questione di tempo, di burocrazia, tutto qui…
Nessuno dei miei amici si è ammalato, eccetto una che ha avuto tutti i sintomi ed è rimasta a casa quasi un mese ma non ha potuto fare il tampone, quindi possiamo dire che ha avuto il Covid ma non è stato “certificato”.
Preoccupazioni lavorative rispetto al futuro? Il contratto di lavoro scade a giugno ma credo che sarà rinnovato senza problemi perché il progetto in cui lavoro è stato prorogato fino a fine anno, quindi sono sicuro della continuità lavorativa fino ad allora. Poi che cosa succederà non lo sappiamo. Resta sempre l’incertezza del terzo settore, e della realtà delle cooperative. Anche se devo dire che anche in altri centri che conosco finora non ci sono stati licenziamenti o interruzioni permanenti dell’attività lavorativa. Anche operatori risultati positivi all’infezione hanno ripreso a lavorare dopo la quarantena.
In generale, in questo periodo cerco di concentrarmi sul presente. E penso più all’Italia che all’Egitto, perché ormai vivo qui da anni, ed i miei amici sono più qui che in Egitto. Ho paura del futuro. Ho paura di una crisi economica, come si dice, che magari non si vedrà o non si sentirà a breve ma soprattutto sul lungo periodo potrebbe farsi sentire. Bisogna vedere come andrà.
Ovviamente per questa emergenza dei piccoli progetti personali sono saltati. Avevo in mente di concedermi una pausa dal lavoro, un periodo per me, per avere un po’ di respiro e riprendermi dallo stress e dalla stanchezza di questi anni. Lavoro continuativamente come educatore da quasi 10 anni, e sinceramente mi pesa, mi pesa tanto; e più vado avanti, più sento il peso; e quindi mi ero progettato, nella mia testa, di prendermi una pausa. Fino a febbraio mi dicevo “dai, stai tranquillo, un educatore maschio, di madre lingua araba, hai 39 anni, non ne hai 60 o 70, un lavoro lo troverai. Fermati, non ti preoccupare, quando inizierai a mandare il curriculum, troverai un lavoro.” Ora dico: forse è meglio che rimandi il mio progetto. Non perché non ne abbia più voglia, ma perché se “mollo” ora, non sono così sicuro di come sarà il mercato. Mi preoccupa il risvolto che l’occupazione avrà in Italia, ovviamente rispetto al mio settore, ma anche in generale.
Nella fase di lockdown mi mancavano gli aperitivi che facevo prima con gli amici e finchè non apriranno i bar e non si potrà andare lì con gli amici, per me c’è ancora “qualcosa che non va”.
L’inizio della fase 2 è stato un sollievo. Il primo sabato di allentamento delle misure di restrizione sono stato al parco. Poter star lì, sdraiato sull’erba per due ore è stato fantastico, una rinascita!
Da un lato sono contento per l’inizio della fase 2, ma dall’altro mi sembra che sia ancora troppo presto, e che ci sia un gioco anche politico-economico, perché si teme che il paese non possa più restare chiuso. E per far girare l’economia temo si menta sui numeri e sulla gravità del contagio. E quindi sono un po’ combattuto: da un lato dico bello e voglio uscire, andare al mare ma dall’altro mi chiedo se è il momento giusto o no. Da un lato c’è tanta voglia di normalità, dall’altro un po’ di preoccupazione e timore che si possa tornare alla situazione che c’era prima.
So che il governo ha reso disponibili alcuni aiuti. Mi sono informato ma non credo che io rientri in questa categoria: perché non ho perso il lavoro, non ho partita IVA. Non ho poi approfondito ulteriormente perché non ne ho stretta necessità. Non ho perso il lavoro, riesco a pagare l’affitto regolarmente, a fare la spesa. Anzi, a dire io il vero nei due mesi di lockdown ho risparmiato: niente aperitivi, niente ristoranti, niente gite!
La situazione in Egitto è un altro capitolo. La mia famiglia, con cui sono in contatto, sta bene, ma non voglio nemmeno pensare alla situazione generale del paese. Purtroppo la salute del cittadino egiziano non è la priorità del regime, anzi è l’ultima cosa a cui pensa. Immagino che la situazione relativa al COVID-19 sia un disastro, ma non viene comunicato, o meglio, le statistiche che dichiarano sono falsate. Fra l’altro, se un paese grande come l’Egitto fa solo 500 test al giorno, come si può avere una reale fotografia della situazione? L’unica salvezza è che il 60% della popolazione è giovane e quindi se prenderanno il virus hanno buona probabilità di reagire.
Mi fa piacere sentire che l’Egitto ha regalato un milione di mascherine all’Italia. Però, mi dico, “avresti potuto tenerle per te!”. Soprattutto perché là c’è carenza di mascherine! Sono sempre più deluso di fronte alla politica egiziana. Speriamo solo vada bene, e che non succeda un disastro.
Ora seguiamo l’evoluzione anche in Italia dell’infezione, e speriamo che non ci sia nemmeno una seconda ondata come dicono, perché poi a settembre e ottobre stare rinchiusi un’altra volta, potrebbe essere veramente difficile, ed essere più difficile contenere la gente.