Mi chiamo Jamila, sono africana e sono arrivata in Italia più di quindici anni fa.
Sono venuta per fare l’università e mi sono laureata. Mentre studiavo lavoravo come mediatrice linguistico-culturale e ho deciso di fare un master per specializzarmi in questa professione. Oggi lavoro in un progetto che si occupa di accoglienza ai rifugiati e ai minori non accompagnati. Abito con i miei figli. Quando mi sono laureata erano entrambi presenti in prima fila.
Prima che iniziasse l’emergenza la mia vita si divideva tra figli e lavoro. Le mie giornate iniziavano sempre con la colazione e la preparazione dei miei figli. Poi li accompagnavo a scuola. All’uscita dal lavoro li andavo a riprendere e accompagnavo entrambi alle attività sportive extra-scolastiche. Quindi spesso tornavamo a casa verso l’ora di cena. Durante il weekend c’era più tempo libero e riuscivamo a fare cene e uscite con gli amici.
Da quando è iniziata l’emergenza le cose sono cambiate. Vorrei sottolineare che sono tra le persone fortunate che hanno un lavoro e lo hanno mantenuto anche in questa situazione. Posso lavorare da casa, facendo chiamate e videochiamate con i colleghi e con i ragazzi del centro d’accoglienza. Ci colleghiamo con loro e continuiamo a fare i colloqui individuali, un po’ come se avessimo una postazione di lavoro.
Come mediatrice culturale, mi occupo di capire i bisogni delle persone in base alla loro cultura di provenienza. Cerco di capire e interpretare i gesti, i movimenti dei ragazzi. Nell’accoglienza è molto importante il ruolo del mediatore, perché è quello che può cercare di capire le persone che abbiamo davanti, capire in che società hanno vissuto per orientarle nelle loro scelte, accompagnarle nel loro percorso, dedicarle uno spazio per poter capire i loro bisogni.
I ragazzi nel centro d’accoglienza in cui lavoro stanno vivendo questa situazione positivamente. Per quanto ho visto sono più forti di quello che pensavo. All’inizio è stato uno shock anche per me, perché mi sono ammalata per un paio di settimane, e per un po’ non ho lavorato. Quando sono rientrata ero preoccupata per i ragazzi, mi chiedevo come la stessero vivendo. Quando li ho sentiti, ho realizzato che avevano capito benissimo la situazione e stavano facendo la loro parte. Hanno capito che stare a casa non è una punizione, ma un contributo alla lotta al Covid. L’hanno capito meglio di me, sono persone molto intelligenti i ragazzi che accogliamo, e riescono a adeguarsi alle situazioni in modo pazzesco. Non me lo aspettavo.
A casa i bambini continuano a fare la didattica online mentre io lavoro. Ognuno fa le sue lezioni nella propria postazione. È un po’ problematico perché siamo tutti chiusi in una casa piccola, quasi uno sopra l’altro, però abbiamo imparato ad accontentarci. È il prezzo da pagare per tornare ad avere una vita migliore e ce la stiamo facendo. I veri problemi sono altri, c’è chi sta male di salute, chi non ha i dispositivi per fare lezione, chi non può andare avanti a lavorare e non percepisce nessun reddito. Quindi ci sentiamo fortunati di riuscire a portare avanti una vita, anche se non è propria quella che vorremmo.
Ho avuto un’influenza per un paio di settimane. Poteva essere coronavirus ma non lo sapremo mai perché non ho fatto il tampone. Mi sono rivolta al medico, ormai lo conosco da tanti anni. Sembrava un’influenza normale quindi il mio medico mi diceva cosa fare per telefono e mi mandava le ricette via mail.
Dal punto di vista economico la mia situazione continua ad essere la stessa di prima. Ho ricevuto lo stipendio come al solito. Ci sono bollette a non finire, pensavo di risparmiare un po’ con il coronavirus visto che non usciamo, ma alla fine non so se è peggio o meglio. Fortunatamente per ora non ho avuto bisogno degli aiuti del governo. Avendo dei figli avrei potuto usufruirne ma non ne ho avuto bisogno potendo lavorare in smart working.
Per la didattica a distanza siamo fortunati. Mio figlio più grande, in passato, ha voluto un computer come regalo al posto di un telefono costoso. Quindi si è trovato preparato con il suo dispositivo. Lui ha capito da subito la situazione e la sua classe è stata una delle prime ad iniziare le lezioni telematiche. Tutti i giorni alle 8 è davanti al computer come se fosse a scuola. Se la sta cavando bene, è un ragazzo che si impegna tanto. Per l’altra l’uso della tecnologia è stata una novità, però le novità piacciono ai bambini di solito. Il padre le ha dato il suo tablet per fare le lezioni. Non ha avuto nessun problema particolare, la sta vivendo bene, le piace inviare i compiti alla maestra. E gli insegnanti li stanno seguendo, non mi aspettavo che si riuscissero a organizzare così bene le cose. Ho dovuto aiutarli ad installare le app, ma non hanno mai avuto bisogno di me per studiare.
Dal punto di vista dei documenti non abbiamo particolari problemi. Io ho la carta di soggiorno, devo trovare il tempo per aggiornare quella di mio figlio che da un anno è staccato dal mio permesso. Dovevo rinnovare il suo passaporto, non lo avevo ancora fatto perché non c’erano viaggi in vista e la pratica costa circa 200 euro quindi ho rimandato perché non c’era fretta. I miei figli sono nati qua, potranno chiedere la cittadinanza al compimento dei 18 anni e spero che lo facciano. Io non ho richiesto la cittadinanza perché va contro i miei principi.
In quanto straniera che vive qua sento sempre il peso di dover far qualcosa per gli altri nel mio paese di origine. Là il covid è una realtà, ma le persone non capiscono, non riescono ad osservare le regole. Anche perché se stanno a casa non mangiano. Nel nostro contesto ci sono molte persone che vivono di piccolo commercio. Quindi impedirli di fare certe attività li mette molto in difficoltà.
Per adesso la mia famiglia sta bene. Non abbiamo avuto lutti, ma persone che sono state molto male sì. Non si sa se per il coronavirus perché anche là non fanno tamponi. Da noi gli ospedali pubblici non sono adeguati e le cliniche private sono molto care. Noi qua abbiamo il vantaggio di aver capito un po’ di più sulla malattia perché essere in Italia, in Lombardia, in questo momento vuol dire sapere che disastri può fare il coronavirus.
Penso che il covid sia stata una cosa nuova per tutti, ci ha colto impreparati. La considerazione che stavo facendo qualche giorno fa, da ignorante, è che adesso stanno calando i morti anche perché finalmente si è riusciti a stabilire una terapia da seguire. All’inizio non si sapeva come curare la malattia, forse anche per quello sono state perse tante vite. È vero che c’erano molti contagi, ma le persone una volta ricoverate in ospedale non miglioravano.
Ho amici medici infermieri e OSS, sia italiani che africani, ho cercato sempre di mandare loro messaggi di sostegno in questo periodo. Alcuni tra i miei contatti si sono ammalati. Qualcuno è guarito ed è tornato a lavorare. Ma anche loro non sanno bene cosa sia successo all’inizio, sanno di aver avuto questa forma influenzale, ma non hanno comunque fatto il tampone. Hanno solo capito che dovevano isolarsi.
L’emergenza è stata gestita nella confusione perché era una situazione nuova per tutti. A livello economico non so cosa avrebbe potuto fare il governo. Parlavo di questo con una mia amica che è quasi la mia mamma italiana. Le dicevo che il fatto che ci sia molto lavoro sommerso ci crea tanti problemi oggi. In teoria una tutela anche piccola per le aziende e le partite iva c’è. Chi si trova più in difficoltà è chi lavorava in nero a mio avviso.
La fase 2 mi preoccupa molto, perché non avendo fatto tanti tamponi, non sappiamo cosa è successo nel frattempo. Secondo me dovrebbe essere il più possibile uguale alla fase 1 perché le cose da fare per passare alla fase 2 non sono state fatte. Avremmo dovuto tracciare le persone malate e gestire le persone che sanno della loro positività. Molti sono asintomatici, chi ci dice che non siano i nostri vicini?
Ieri nel mio paese hanno deciso di riaprire i bar. Secondo me ognuno deve cercare di tutelarsi come può, capisco la necessità di tornare al lavoro, ma nei limiti del possibile sarebbe meglio fare attenzione….