Voci Migranti ai tempi dell’emergenza del Corona Virus

La Voce di Liliana

Sono Liliana, sono un’infermiera peruviana e sono arrivata in Italia da più di una decina di anni. Sono originaria del Perù. Sono venuta in questo bel paese tanti anni fa sia per cercare uno sviluppo professionale, che per scoprire altre realtà diverse da quella sudamericana. Quando ho deciso di venire in Italia, mi sono organizzata, ho fatto tutti gli esami, avevo già una laurea in infermieristica e avevo già fatto esperienza nel mio paese. Sono molto grata per le esperienze che ho potuto fare qui.

 

La mia storia con il coronavirus io credo di poter dire che è iniziata a fine gennaio, quando ancora si sapeva solo dei casi di Wuhan. Me lo ricordo bene. Ero di turno nell’ospedale di Milano in cui lavoro da molti anni. Al nostro reparto è arrivato un paziente di 65 anni con la polmonite. Me lo ricordo bene perché sono stata io a fare l’accettazione. Mi ricordo che nella sua cartella c’era scritto che al paziente era stato fatto un tampone per il coronavirus nel pronto soccorso. Ho detto al medico di turno che era arrivato un paziente a cui era stato fatto quest’esame e che avremmo dovuto allertarci. Il medico mi disse che ancora non c’era una procedura. Io non sono andata oltre a quella cartella, anche perché non ci è mai arrivato l’esito di questo esame. In seguito, non ho più saputo se si è trattato di un errore del pronto soccorso. Ne ho parlato anche con i miei colleghi ma non sapremo mai se era una cosa vera o no, se è stato fatto il tampone oppure no…

 

Poi sono partita in ferie per il Perù e da là ho sentito la notizia dei primi casi in Italia. Tanti miei amici mi chiedevano cosa stesse succedendo e se ero sicura di tornare. “Guarda che là inizia il picco e ci sono tanti casi” mi dicevano. Non ho mai avuto dubbi a tornare. All’inizio la paura era tanta anche tra noi sanitari. Comunque, sono stata sempre sicura di tornare perché qui ho la mia vita. Sono sposata con un italiano, ho degli amici e amo questo paese che mi ha dato un’opportunità in molti sensi.

 

Quando sono tornata a lavorare iniziavano ad esserci i primi casi. Nel mio reparto non si sapeva bene come organizzarsi o cosa usare, perché noi non siamo un reparto di terapia intensiva. Dovevamo accettare qualunque paziente arrivasse con la paura del contagio e di contagiare. Da un punto di vista dei dispositivi di protezione non è stato facile averli ma ora ce li abbiamo. Noi operatori abbiamo sempre preteso di avere i mezzi per lavorare in sicurezza, almeno il minimo indispensabile per quando andiamo di fronte ai pazienti Covid, perché ci capita di accogliere pazienti Covid che escono da terapia intensiva.

 

La cosa più pesante di questa crisi del coronavirus sul fronte lavorativo è il timore costante, l’ansia che noi come personale sanitario abbiamo nei confronti dei nostri familiari, perché abbiamo questa paura di portare il contagio a casa nostra in qualunque forma. Vedo che molti miei colleghi sono in malattia. Hanno figli, bambini. Io ho paura per mio marito, che per qualche mia dimenticanza si possa contagiare. Purtroppo, ho perso un parente per questa malattia. È stato molto complicato. E ho anche una collega che attualmente è paziente covid, è stata in terapia intensiva. Cerco di darle una mano e di starle vicino. Anche se in questo momento c’è una diminuzione dei ricoveri, noi personale sanitario abbiamo ansia per quando finirà questa situazione, quando potremo iniziare ad avere una vita un po’ normale come era prima.

 

Io non mi considero un’eroina. Credo che usare questo termine per parlare di noi sia sbagliato. Chi lavora nella sanità sceglie questo mestiere e sa a cosa va incontro. Non si può chiamare eroe una persona che fa il suo dovere. Quando entro all’ospedale sono consapevole che posso prendere il coronavirus o l’epatite C, l’Hiv o altre malattie. Piuttosto mi piacerebbe avere un riconoscimento da un altro punto di vista. Per esempio rispetto alla stabilità lavorativa. Nell’ospedale in cui lavoro ho un contrato interinale e come me altri colleghi stranieri. Dopo quasi dieci anni di lavoro vorremo avere l’opportunità di avere una stabilità lavorativa nella sanità pubblica ma non possiamo perché non abbiamo la cittadinanza italiana. I requisiti per essere cittadini italiani li abbiamo, il problema è la lunghezza della procedura.

 

Questa emergenza mi ha creato anche una serie di complicazioni rispetto al permesso di soggiorno. Io avevo tutti i requisiti per fare la cittadinanza italiana, stavo per presentare la pratica ma la legge è cambiata e hanno allungato il tempo di residenza richiesto, quindi devo ancora aspettare per poter presentare la domanda. Per cui mi ritrovo a dover ancora rinnovare il permesso di soggiorno. Il giorno del fermo totale avevo l’appuntamento per il rinnovo. Ora attendo che mi ridiano l’appuntamento. Devo sempre andare in giro con tutti i documenti e la richiesta dell’appuntamento per dimostrare che sono regolare!

 

Io mi sono sempre mossa con i mezzi per andare al lavoro. Normalmente facevo avanti indietro senza problemi perché amo il mio lavoro. Ora invece è diventato pesante. Per fortuna mia marito lavora da casa e ha un po’ più di flessibilità quindi riesce ad aiutarmi negli spostamenti perché io non ho la patente.

 

In questa emergenza mio marito ha scoperto l’amore per la cucina e ha capito quello che significa fare i lavori di casa. Ora, in casa fa i mestieri che non sapeva di saper fare, perché si rende conto anche delle mie difficoltà e della stanchezza lavorativa che ho in questo periodo.

 

Dal punto di vista economico io non ho avuto particolari problemi ma mio marito lavora in proprio e quindi non verrà pagato questo mese. Per fortuna per il momento non abbiamo delle spese urgenti e cerchiamo di risparmiare.

 

Nel mio paese il contagio si è diffuso. Prima che partisse l’emergenza ho rilasciato delle interviste in Perù. Ho cercato di dare più informazioni possibili sulla prevenzione, perché in Perù non abbiamo strutture ospedaliere adeguate per far fronte a una emergenza con un numero così alto di malati. Ho cercato di far capire l’importanza dell’isolamento e del lavaggio delle mani per la prevenzione. Metà della popolazione sta portando avanti l’isolamento in maniera molto disciplinata, ma l’altra metà, per motivi culturali, non lo sta facendo. Si pensa che sia una malattia dei ricchi e degli stranieri, non c’è consapevolezza sul fatto che può colpire tutti. Sto cercando di raccontare che qua in Italia tante persone sono morte e può succedere anche in Perù. Ho dato questo consiglio ai miei compaesani. Tanti danno retta ma tanti altri ancora non hanno realizzato la gravità di questa malattia.

 

Quando sono arrivata in Italia ho trovato una sanità migliore e più sviluppata rispetto a quello che abbiamo in Perú. Non pensavo che una pandemia potesse arrivare in Italia, ma ho visto che la malattia ha messo al tappeto la sanità italiana sotto tanti aspetti e mi dispiace perché in Italia siete fortunati, avete tante risorse, ma avete trascurato una cosa importante come la sanità. Nessuno pensava che una semplice influenza potesse uccidere tanta gente. Non si è capito che i cinesi, che in Lombardia hanno tante imprese e tanti soldi e sono i principali turisti, potevano portarci involontariamente questa cosa. Abbiamo dato troppa importanza ad altre cose rispetto alla salute.

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Mi chiamo Lucia, vengo dalla Romania e sono in Italia da 14 anni. Vivo a Roma con una signora...

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Sono Giorgio e vengo dall’Albania. Sono arrivato in Italia vent’anni fa. Vivo con mia moglie...

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Mi chiamo Lissa, sono brasiliana e ho 27 anni. Mi sono trasferita in Italia circa 2 anni per fare...

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Sono Wendy e vengo dal Perù. Sono arrivata in Italia una decina di anni fa per raggiungere...

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Mi chiamo Asllan e vengo dall’Albania. Ho cinquant’anni, da trenta vivo in Italia e da venti a Pavia...

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